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Settembre 2015 - La scienza non è dogmatica, ogni ipotesi deve essere considerata “vera” fino a quando non si dimostra il contrario. Così, mentre ci si interroga ancora sul colore della pelle dei Faraoni e dei loro sudditi (erano neri?), una nuova specie del genere Homo, con caratteristiche primitive e moderne insieme, è stata scoperta in Sudafrica. Un ritrovamento che potrebbe far riscrivere la storia dell'evoluzione della nostra specie?

In una grotta vicino a Johannesburg, sono stati rinvenuti oltre 1.500 elementi fossili, di cui ossa appartenenti a 15 individui, alti un metro e mezzo circa, con un cervello minuscolo, ma con piedi simili ai nostri. I diversi sedimenti ritrovati non permettono ancora di datare le ossa e risalire alla sua età, ma secondo gli studiosi Homo naledi  potrebbe avere tra i due milioni e i due milioni e mezzo di anni. Non molto alto, piuttosto snello, peso circa 45 chili, forse seppelliva già i suoi morti, ben prima dell'Homo sapiens.

L'annuncio del ritrovamento è stato dato dalla University of Witswaterstrand di Johannesburg, dalla National Geographic Society e dal Dipartimento per la Scienza e la Tecnologia/National Research Foundation del Sudafrica ed è stato pubblicato dalla rivista scientifica eLife. Secondo  il paleontologo Lee Berger, della National Geographic Society, che ha guidato le spedizioni di scoperta e recupero, si tratta "aticamente della specie fossile meglio conosciuta nella linea evolutiva dell'uomo".

Il cranio e i denti appaiono abbastanza simili a quelli di alcune specie più primitive del genere Homo, come Homo habilis e le spalle somigliano di più a quelle delle grandi scimmie. Invece le mani appaiono adatte all'utilizzo di utensili, mentre ma le dita molto curve fanno pensare che fosse molto bravo ad arrampicarsi .Le caratteristiche dei piedi e delle gambe slanciate fanno pensare che la specie fosse adatta anche a lunghe camminate, il che capovolge quello in cui i paleontologi credevano e cioè: l'uomo che camminava eretto aveva perso la capacità di arrampicarsi sugli alberi.

E gli antichi Egizi ? Fin dal 1974 se ne è discusso al Cairo, al Colloquio internazionale di egittologia scientifica, sotto l’egida dell’Unesco. Protagonista, Cheikh Anta Diop (1923-1986), storico, antropologo, chimico e fisico senegalese, e padre, con Joseph Ki-Zerbo, della storiografia africana. I suoi studi sull’Africa precoloniale l’avevano portato a gettare le basi, fin dagli anni 50, della sua tesi sugli “Egizi neri” e sull’origine dell’identità e della cultura africane, collegate alla storia dell’antico Egitto. Diventando così uno dei più controversi intellettuali del suo tempo. In passato, afferma Diop, non vivevano bianchi in Africa, e i primi uomini che hanno popolato l’Egitto non erano venuti via mare dal Mediterraneo, ma dal Sudan. Scendendo verso la foce lungo il Nilo, avrebbero fondato le prime dinastie faraoniche. Scrittori della Grecia antica testimoniano che gli abitanti dell’Egitto erano neri fino alla fine del secondo millennio prima di Cristo; alcuni affermano che Ramses II aveva sangue tutsi, altri che era di etnia peul.

No, aveva contestato Lionel Balout, che con la sua collaboratrice Colette Roubet aveva diretto i lavori di restauro e conservazione della mummia di Ramses II: “il faraone era antropologicamente un vero mediterraneo, un uomo bianco, al massimo un berbero. La sua pelle bianca è stata dimostrata dall’esame della melanina della sua mummia, analizzata a Parigi.” L’Egitto predinastico e faraonico per Balout si collega al mondo del Maghreb e non a quello dell’Africa nera, il che non esclude che non fossero presenti nella popolazione elementi negroidi o “etiopici”, ma non sufficienti per un inquadramento globale, culturale e fisico, dell’Egitto in un’area estranea.

Ma Cheikh Anta Diop ribatteva che la scarsità della melanina nella pelle e nei capelli della  mummia era giustificata dall’età avanzata del faraone; mentre gli uomini dalla pelle bianca, i leucodermi, erano arrivati soltanto sotto la XIX dinastia, quindi durante il regno di Ramses II; i  Berberi attuali, sosteneva,  discendono da quei “popoli del mare” che sono stati sconfitti da Ramses II, respinti ad ovest del delta del Nilo, da dove si diffusero fino alla regione di Cartagine e alla sponde dell’Atlantico tra il 1300 i il 1200 a.C. Del resto, “gli Egizi cercavano di distinguersi  dal leucodermi dipingendosi con colori scuri: nero carbone o marrone, mentre i non-neri venivano dipinti in bianco”.  L’antropologo senegalese ha citato numerose altre conferme alla sua teoria in vari libri, come Nations Nègres et Culture (pubblicato nel 1955 e nel l979 da  Nouvelles Éditions Africaines), Parenté génétique entre les langues de l'Égypte pharaonique et les langues négro-africaines, in cui dimostra che la lingua dei faraoni si trova esattamente replicata nelle lingue africane (come il wolof del Sénégal o il mbochi del Congo) sia a livello della grammatica che del lessico e del pensiero, e non si tratta di semplici similitudini come con le lingue semitiche. Nel 1974 fu pubblicato il primo libro di Diop tradotto in inglese, The African Origin of Civilization: Myth or Reality, in cui, attraverso analisi e riscontri antropologici e archeologici, sostiene la teoria dell'origine nera dei faraoni. Non solo Balout, ma anche la maggioranza degli archeologi europei aveva opinioni diametralmente opposte alle tesi di Anta Diop e Théophile Obenga (cattedra di egittologia all’università di Brazzaville). In particolare per il professor Jean Leclant (cattedra di egittologia al  Collège de France), dire che gli antichi Egizi erano neri era assurdo; ricorda che la polemica al Cairo era così infiammata che si rischiava la bagarre, e Diop, con le forbici in mano, urlava: “ Voi non mi lasciate tagliare la pelle delle mummie reali: qui posso trovare la melanina, e me lo impedite”. Gli si rispondeva: “Ma come, volete profanare con le vostre forbici i nostri faraoni più venerabili?”. Comunque siano andate le cose, per Leclant l'essenziale è “sapere in che misura la civiltà egizia era africana. E’ già molto chiedere agli egittologi di togliere l’Egitto dal suo contesto geo-storico di Semiti, Assiri e altri, per inserirlo in un ambiente africano”.

Accusato da alcuni di essere “razzista”, Diop non ha mai sostenuto una superiorità razziale dei neri contrapposta alla tradizionale superiorità bianca, affermando: “Ci scusiamo di essere tornati a parlare di razza, eredità culturale, relazioni linguistiche, e connessioni storiche tra popolazioni. Non do' più importanza a queste questioni di quanta ne meritino in una società moderna del ventesimo secolo”. Cheikh Anta Diop è stato in primo luogo uno scienziato. Nel 1974 pubblica Physique nucléaire et chronologie absolue, lavoro di sintesi sui metodi di datazione di campioni archeologici e geologici, in particolare con il radiocarbonio,  con cui ha lavorato nel suo laboratorio dell’università di Dakar. Diop non ha inventato il metodo  (che fu ideato e messo a punto tra il 1945 e il 1955 dal chimico statunitense Willard Frank Libby, che per questa scoperta ottenne il Premio Nobel nel 1960). Ma una delle sue scoperte più importanti, pubblicata in diverse riviste scientifiche, fu il dosage test: una tecnica da lui sviluppata per determinare la quantità di melanina contenuta nelle mummie egizie (metodo in seguito adottato dai laboratori scientifici degli USA per determinare l'etnia dei corpi carbonizzati).

Per tornare ai Faraoni neri, le ultime scoperte di Charles Bonnet nel sito di Kerma avvalorano alcune ipotesi di Diop (Bonnet Charles et. al, 2005, Des Pharaons venus d'Afrique: La cachette de Kerma, Ed.Citadelles & Mazenod). Kerma è stata sede di una cultura neolitica attestata da un campo di sepolture databile al 7500 a.C. ed è uno dei campi di sepolture più antichi dell'Africa. l regno nubiano di Kerma, esistito tra il 2500 a.C. ed il 1520 a.C. ebbe il momento di maggiore splendore in coincidenza con il medio regno egizio.

 Cheikh Anta Diop nel laboratorio di datazione con il Carbonio 14 (radioattivo) da lui creato nell’ambito dell’Università di Dakar