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- Mercoledì, 29 Luglio 2015 15:11
Se tutti conoscono il significato della parola ecologia (dal greco casa, ambiente e discorso, studio), delle sue branche scientifiche e dei vari termini derivati, l’ecocidio può apparire misterioso. Anche perché tra i primi significati su internet si trova un concetto minaccioso (espresso da Jeremy Rifkin nel suo saggio omonimo): “ascesa e caduta della cultura della carne”. In realtà ecocidio significa distruzione dell’ambiente naturale, danno ambientale esteso. E Rifkin, partendo dalla sacralizzazione dei sacrifici umani e animali, basandosi su dati antropologici, ecologici, economici, afferma che l’evoluzione del consumo della carne nei paesi occidentali industrializzati porta malattie, enormi squilibri ambientali, spreco di grandi quantità di cereali, aumento di povertà e fame nei paesi del terzo mondo. Anzi, studiando in particolare l’evoluzione della geografia agricola della Francia, ritiene che la propensione ecocida della popolazioni rurali prima della Rivoluzione Francese abbia coinciso che la prima ondata sconsiderata dell’industrializzazione moderna
. Siccità in Somalia (foto Attilio Gaudio, circa 1960)
Di modello di sviluppo ecocida si parlerà martedì 07 febbraio 2017 a Verona (Nigrizia, Sala Africa dei Missionari Comboniani, Vicolo Pozzo 1 – ore 20,30). Ad affrontare il tema sarà Stefano Squarcina, esperto di politiche ambientali e di cooperazione allo sviluppo, in particolare con l’Africa. Le attività economiche umane rappresentano sempre più un pericolo per la sopravvivenza dei viventi e del pianeta stesso. E’ urgente mettere in pratica le misure sottoscritte da oltre 190 paesi dell’ONU negli accordi di Parigi nel 2015. In precedenza, infatti, lo Statuto di Roma (Art.8, 2b, iv) della Corte penale internazionale (firmato nel 1998, entrato in vigore nel 2002 e modificato nel 2010) non aveva incluso l’ecocidio tra i “crimini internazionali contro la pace” insieme al genocidio; si erano opposti Regno Unito, Usa e Paesi Bassi. I danni “diffusi, duraturi e gravi all’ambiente naturale” erano stati inseriti tra i crimini di guerra. Quindi l’ecocidio sarebbe un crimine in tempo di guerra ma non in tempi di pace.
Ma i rifugiati climatici nel mondo sono ormai più di 180 milioni. Deforestazione, siccità, distruzione delle zone umide, erosione dei suoli e conseguente ulteriore impoverimento delle popolazioni hanno raggiunto in Africa dei livelli di criticità mai conosciuti nella storia dell’umanità. Durante l’incontro di Nigrizia verranno discusse misure per combattere il “debito climatico”, azioni a favore della “giustizia climatica” (ad esempio riorientamento della fiscalità a fini climatici o transizione energetica), nuove forme e meccanismi di finanziamento della politica di cooperazione internazionale, soprattutto europea, verso l’Africa e altre aree del pianeta. Occorre ripensare le politiche di intervento nei paesi impoveriti, favorire un’agricoltura sostenibile, la decarbonizzazione dell’economia, la protezione e democratizzazione dell’uso delle risorse idriche potabili e non, la lotta alle emissioni di gas ad effetto-serra, alla deforestazione, ecc... Il problema non presenta solo aspetti climatici, politici e macroeconomici, ma anche etici e sociali a tutti i livelli, come il land grabbing (acquisizione su larga scala di terreni agricoli soprattutto in paesi in via di sviluppo) la costruzione di grandi dighe, lo spostamento di grandi masse di popolazione, l’esproprio di aree tribali o di piccoli appezzamenti preziosi l’autosufficienza alimentare, la dipendenza dalle sementi ogm, le estese monoculture per la produzione di materie prime o biocarburante per i paesi ricchi, la delocalizzazione delle grandi industrie, persino i parchi nazionali con ambigua protezione di flora e faura ma con bracconaggio commerciale e privazione dei diritti di caccia tradizionali dei nativi … infine la globalizzazione.
La rivista British Archaeology ha pubblicato i risultati di uno studio del ricercatore inglese Mike Pitts, secondo il quale due delle famose pietre di Stonehenge sarebbero preesistenti all'arrivo dell'uomo in Inghilterra. Questo sito, il più celebre ed imponente cromlech (circolo di pietra) della preistoria, si trova ad Amesbury nello Wiltshire, circa 13 chilometri a nord-ovest di Salisbury (sud dell'isola)
Da anni archeologi e storici si interrogano sul significato del misterioso monumento circolare di pietra. La datazione radiocarbonica indica che la costruzione fu iniziata nel 3100 a.C., e si concluse verso il 1600 a.C.. In base alla nuova ricerca invece si pensa che almeno due pietre siano del tutto naturali, sempre esistite in loco.
Infatti lo stesso Pitts, nel 1979, aveva trovato, scavando vicino al sito, resti di queste pietre, che sarebbero state trascinate a valle dall'azione di un ghiacciaio dalla vicina catena collinare (Marlborough Down) poi abitata dai pastori nomadi del paleolitico e del mesolitico.
In effetti si è sempre pensato che queste pietre di sarsens (blocchi di arenaria locale), del resto diffusissime in tutta la Gran Bretagna, provenissero dai rilievi vicini e sarebbero rimaste parzialmente interrate; altre, ma moltissimi anni dopo, sarebbero state trascinate da altri luoghi per completare il monumento.
Ma perché pietre del tallone? La tradizione racconta che il diavolo "comprò le pietre da una donna in Irlanda, le avvolse e le portò sulla piana di Salisbury. Una delle pietre cadde nel fiume Avon, le altre vennero portate sulla piana. Il diavolo allora gridò, "Nessuno scoprirà mai come queste pietre sono arrivate fin qui". Un frate rispose, "Questo è ciò che credi!", allora il diavolo lanciò una delle pietre contro il frate e lo colpì su un tallone. La pietra si incastrò nel terreno, ed è ancora lì."
Sarebbero state trovate in Egitto le tracce di uno degli antichi templi solari costruiti dai faraoni; sarebbe il terzo dei sei di cui si ha notizia. Dedicati al dio Ra e al culto del sole al tramonto, questa tipologia di templi solari compare durante la V dinastia; venivano eretti dai faraoni per assicurarsi lo stato di dei durante la vita (mentre le piramidi garantivano loro l'eternità dopo la morte). Ubicati ad ovest, da un accesso in penombra si giungeva, attraverso articolati passaggi al buio, ad un cortile sacro inondato dalla luce del sole; al centro, un obelisco e un altare per le offerte. Nei templi a cella invece si passava dalla luce solare al buio.
Il primo tempio solare di cui abbiamo notizia è quello denominato Nekhen Ra (Fortezza di Ra) eretto 4500 anni fa da Userkaf, primo sovrano della dinastia, nel sito di Abu Ghorab. Si trova nel Basso Egitto, a sud-ovest del Cairo, sulla riva ovest del Nilo, dove inizia il deserto occidentale.
Il tempio solare meglio conservato è probabilmente quello di Nyuserra (Shesepu-ib-Ra, Delizia del cuore di Ra), quinto sovrano della dinastia, che regnò per un periodo di 24-35 anni nel 25° secolo a.C.. Fu scoperto dall'inglese Perring nel 1837 ma era già noto con il nome di "Piramide di Reegah”; fu poi studiato dall’ archeologo tedesco Ludwig Borchardt nel 1898. Si trova all’estremità settentrionale della necropoli di Abusir, campo sepolcrale dei faraoni della V dinastia (2465-2323 a.C.) e area centrale, per tutto il III millennio a.C., di quella che fu la più grande necropoli d’Egitto, presso Menfi, capitale durante l’Antico Regno (2575-2150 a.C.), e oggetto di nuovi studi una decina di anni fa.
Ma per cinquant'anni non si sono verificate nuove scoperte di templi solari. Invece ora, scavando sotto i resti di questo tempio, gli archeologi hanno trovato, dopo aver tolto la sabbia e i frammenti di pietra, la base di un pilastro di calcare bianco profondo 60 centimetri; poi una base più antica di mattoni e lastre di fango. Inoltre la scoperta di un nascondiglio segreto, con parecchie coppe da birra insabbiate nelle fondamenta (offerta rituale degli antichi Egizi nei luoghi più sacri) indicherebbe di essere in presenza proprio di un tempio solare, più antico e quindi sottostante al tempio di pietra.
Il professor Massimiliano Nuzzolo (egittologo presso l'Accademia delle Scienze di Varsavia) afferma che si era già a conoscenza che c'era "qualcosa" sotto il tempio di pietra di Nyuserra; il fatto che si sia trovato un grande ingresso fa pensare ad un preesistente edificio, "forse un altro tempio solare, uno dei templi solari scomparsi..."
Con la fine della V dinastia il tempio solare diventa meno importante. Ritorna poi con il Nuovo Regno, nella città di Amarna, con Akhenaton e il culto monoteistico di Aton, dio del sole e garante di vita. Il culto del sole aveva avuto origine già nel periodo predinastico, con i Shemsu-Hor, gli adoratori del dio sole, il "Signore dei due orizzonti".
ETIOPIA (ed ASMARA) - Guerra contro il Tigray
In questo anno 2020, segnato dalla pandemia per il Covid-19, si parla poco dell’ Etiopia. Eppure sono due i grandi fatti di attualità: la grande diga sul Nilo Azzurro e il conflitto nel nord del paese. Poi un più recente triste fatto di cronaca: il 12 gennaio 2021 il feretro di Agitu Gudeta è arrivato ad Addis Abeba, dove sarà sepolto per volere della famiglia, e riceverà i funerali di Stato. Una scritta accompagna l'immagine dell'imprenditrice massacrata in Trentino: "La tenacia instancabile". La donna, che aveva fondato l'azienda biologica "La capra felice", è stata uccisa da un suo collaboratore ghanese, sembra per uno stipendio non corrisposto.
LaregionedelTigray (fotoMGC§ )
Agidu aveva lasciato l'Etiopia dopo aver ricevuto minacce da parte del governo per la sua attività di contrasto al land grabbing, l’accaparramento dei terreni a favore delle multinazionali, un problema che affligge molti Paesi africani. Dopo gli studi all'università di Trento si era stabilita a Frassilongo nel 2010 e aveva fondato il suo allevamento di capre autoctone con produzione di formaggi nei terreni recuperati dall’abbandono nelle montagne trentine.
L'Etiopia - Circondata da: Sud Sudan a ovest, Eritrea a nord, Corno d’Africa con Somalia e Gibuti a est, Kenya a sud, L’Etiopia non ha sbocchi sul mare e si può grossolanamente dividere in tre grandi tre grandi regioni morfologiche: l’Acrocoro Etiopico propriamente detto, la Dancalia e l’Altopiano Galla-Somalo. Secondo paese africano per popolazione, i circa 103 milioni di abitanti sono divisi in oltre ottanta etnie, diverse per lingua, storia, habitat e cultura. I gruppi etnici maggioritari sono Oromo, Afar, Galla, Amhara, Somali, Sidamo, Gurage, Weilata, Tigrini *(6% della popolazione etiopica). E’ la regione di questi ultimi, il Tigray (nel nord, al confine con Eritrea e Sudan) ad essere teatro di un micidiale conflitto dal 4 novembre 2020. Amministrativamente l’Etiopia è uno stato federale suddiviso in dieci stati regionali semi-autonomi e due città autonome, Addis Abeba e Dire Daua.
La regione del Tigray (Foto MCG §)
Per capire bisogna ora fare un passo indietro. ll Tigray è una regione montagnosa con circa cinque milioni di abitanti (in prevalenza agricoltori e allevatori) di cui circa 500.000 popolano la capitale Makallé. Tigrino è Meles Zenawi, che è stato presidente di transizione dal 1991 al 1995 dell’Etiopia alla caduta del governo del Derg,** per poi diventare primo ministro. Sotto la sua presidenza venne istituito nel Paese, con la Costituzione del 1994, un federalismo su base etnica. Il progetto della grande diga sul Nilo Azzurro (auspicato da Hailé Selassié) era già stato approvato una decina di anni fa appunto con Meles Zenawi, leader del Fronte di Liberazione del Popolo del Tigré (TPLF) e poi del Fronte Ethiopian People’s Revolutionary Democratic (EPRDF). Il partito di Zenawi (che morì a Bruxelles nel 2012 a soli 57 anni) dirige tuttora la regione del Tigray, ma è importante notare che ha controllato per circa trent’anni l’apparato politico e di sicurezza in Etiopia (rimanendo acerrimo nemico dell’Eritrea, con cui invece il governo attuale di Addis Abeba ha fatto recentemente pace). Invece il giovane primo ministro attuale Abiy Ahmed Alì (42 anni, di etnia Oromo) eletto nel 2018, ha messo fine a due decenni di guerra con Asmara, ed è stato capace di far coalizzare le componenti politiche dei due gruppi etnici più numerosi (Oromo e Amhara) in Etiopia, forse isolando i Tigrini.
In giugno 2020 erano già iniziati apertamente gli attriti con il governo centrale, quando il Parlamento federale aveva rinviato le elezioni causa Coronavirus, estendendo di un altro anno il mandato al primo ministro. Così il governo del Tigray aveva indetto le sue elezioni parlamentari, vinte ovviamente dal TPLF.
In risposta Abiy Ahmed (premio Nobel per la Pace 2019***) accusa il TPLF di aver attaccato le truppe federali in una base settentrionale, e minaccia un’operazione militare contro la regione dissidente per sostituire le autorità tigrine con “istituzioni legittime". Alle parole: "siete sul punto di non ritorno, arrendetevi pacificamente: il vostro viaggio di distruzione è arrivato alla fine", il leader tigrino Debretsion Gebremichael risponde "siamo persone di principio, non arretreremo di un millimetro". Di qui il taglio dei collegamenti con il Tigray, che respinge l'ultimatum del premier (tempo 72 ore per arrendersi) e l'inizio delle ostilità. L'esercito federale quindi invade il Tigray accerchiandone la capitale. In risposta i Tigrini attaccano con missili e artiglieria obiettivi dell'esercito regolare, distruggono gli aeroporti nelle vicinanze, facendo arrivare missili persino sulla capitale eritrea, Asmara, da dove partivano i raid aerei etiopi. Doveva essere un'operazione lampo, ma il conflitto ha ormai provocato centinaia di morti e numerose migliaia di rifugiati nel vicino Sudan, allontanando la "fase finale" auspicata dal primo ministro. Il numero dei profughi è andato diminuendo con il passare dei mesi (da 7.000 a meno di 500 al giorno), anche per un incremento della sorveglianza sulla linea di frontiera sudanese, ma un terzo è costituito da bambini e minori di 17 anni. A fine novembre il primo ministro avrebbe dichiarato la vittoria del governo, ma 6 milioni di persone sarebbero ancora bloccate nel Tigray. Nell'est del Sudan nell'ultimo mese sono stati trasferiti più di 20.000 Tigrini, dalle zone frontaliere, verso il campo di Um Rakuba, a circa 75 km dalla città di Gedaref, e si parla di costruire un nuovo campo per i rifugiati verso l'interno. Misteri e silenzi: è certo il pericolo di tumulti violenti e incertezze, rivalità etniche, genocidio.
Tigrini (Foto MCG§)
La Commissione Etiope per i Diritti Umani ha comunicato che questo 12 gennaio sono stati uccisi oltre 80 civili, bambini compresi, in un attacco nella regione di Benishangul-Gumuz, al confine con il Sudan. L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (HCDH) ha chiesto ad AddisAbeba di poter accedere all'intera regione del Tigray e di proteggere i civili. Intanto è stato chiuso lo spazio aereo sudanese ai confini l'Etiopia per i voli civili. Un convoglio di aiuti internazionali e sette camion della Croce Rossa sono recentemente arrivati a Makallé con medicinali e materiale medico... le notizie, come gli aiuti, sono insufficienti. Lo riporta Esat Tv, canale satellitare dell'opposizione citato dalla Bbc, specificando che numerosi attacchi sono stati lanciati nelle giornate di lunedì e martedì (12 e 13 gennaio). Il rapporto cita ancora "fonti attendibili" che confermano l'uccisione di 130 civili da parte di uomini armati in vari distretti nella zona di Metekel lunedì. "I banditi armati prendevano di mira solo le case dei cittadini di etnia Amhara e Agew, e ne hanno uccisi molti, comprese donne e bambini; gli abitanti dell'area raccoglievano i corpi", hanno detto all'Esat Tv. Durante l'attacco al distretto di Dibate, afferma la stessa fonte locale , "il numero dei morti potrebbe ancora aumentare".
Nel Cimitero Italiano di Adigrat sono sepolti circa 765 italiani, soldati e civili. (Foto MCG§). Sono qui riuniti i caduti provenienti dai cimiteri di Adigrat - Acab Saat - Dembenguirà - Abi Abuna - Amba Alagi - Axum - Ugurò - Selaclalà - Enticciò - Biet Mora.
A circa 1.000 km a nord di Addis Abeba, nella Regione del Tigray, si trova Adigrat, ultima importante città prima del confine con l’Eritrea. Circondata dalle alte Ambe, Adigrat si trova in una fertile conca, sulla principale rotta commerciale e strategica verso il Mar Rosso. Punto strategico di base e di rifornimenti nella campagna italo-etiopica del 1895-96 (con la conquista dell'Eritrea), e successivamente nella guerra per iniziare conquista dell'Etiopia (1935-36), sulla linea Adua-Adigrat verso sud.
*I Tigrini , come gli altri popoli degli altipiani, sono un popolo forte. Questo gruppo etnolinguistico vive in gran parte negli altopiani eritrei e nella regione settenrionale del Tigray in Etiopia. Parlano la lingua Tigrinya, che appartiene alla famiglia afroasiatica. La loro religione è il cristianesimo ortodosso, in particolare sono seguaci della chiesa ortodossa etiopica di Tewahedo. Le loro coltivazioni sono in prevalenza il cereale teff, granoturco, orzo, piselli, lenticchie, cipolle e patate. Come pastori prediligono pecore e capre da cui ricavano pelli e lane per oggetti, coperte e indumenti. Le tipiche case tigrine sono di pietra a pianta quadrata, altre sono tonde col tetto piatto fatto di terra; il focolare è ricavato da una buca nel pavimento, mentre il fumo infilandosi in una brocca rotta come comignolo esce dal tetto. Ma, dato che la legna da ardere è scarsa, i contadini, invece di concimare il terreno, utilizzano il letame per fare il fuoco in cucina. Sui ripidi pendii utilizzano un sistema di irrigazione a terrazzamento. Anticamente c'erano numerose grandi comunità urbane nella regione del Tigray, che fiorirono e crearono molta arte cristiana durante il Medioevo.
** Il Derg ("comitato" in lingua amharica) o Governo Militare provvisorio dell'Etiopia Socialista, governò con una feroce dittatura l'Etiopia e l'attuale Eritrea dal 1974 al 1987, ma ne mantenne il controllo fino al 1991. Il suo presidente dal 1977 era Menghistu Hailé Mariam, detto il Negus rosso. Questo Comitato di coordinamento di forze armate, polizia e forze territoriali, aveva detronizzato Selassié nel 1977 e avviato una rivoluzione progressivamente marxista (dopo una lotta tra moderati e radicali) con Menghistu. Hailé Selassié è stato dunque l'ultimo imperatore d' Etiopia dal 1930 al 1974 (a parte l'esilio in Inghilterra durante l'occupazione italiana); imprigionato nel palazzo imperiale, venne assassinato per ordine dello stesso Menghistu. Dopo la guerra, l'Eritrea era stata federata inizialmente all'Impero d'Etiopia dalle Nazioni Unite, mantenendo la propria autonomia. Ma il governo di Addid Abeba smantellò lo stato federale nel 1960, per annettere semplicemente l'Eritrea nel 1962. Soltanto nel 1991 il Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo scacciò l'esercito etiope fuori dei confini eritrei, e supportò il TPLF (Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè), movimento etiope di resistenza, per rovesciare la dittatura di Menghistu, che cadde nello stesso anno. Ma nel 1998 l'Etiopia, per un problema di confini, aveva iniziato una guerra con l'Eritrea (da cui si era separata consensualmente nel 1993, con l'indipendenza dell'Eritrea dopo una guerra durata trent'anni). Sia dopo il Negus Rosso che dopo la morte di Zenawi il paese si trovò in condizioni durissime anche per siccità, povertà, tumulti, proteste, repressioni, brogli elettorali, la guerra con l'Eritrea ... Il suo vice Haile Mariam Desalegn si dimette inizio 2018, lasciando il paese vicino ad una guerra civile. Le elezioni portano al governo Abiy Ahmed Alì di etnia Oromo, che fa pace con l'Eritrea chiamandola "amica".
*** "La guerre est l’incarnation de l’enfer pour tous ceux qui y participent. Je suis passé par là et j’en suis revenu." Le 10 décembre 2019, à Oslo, Abiy Ahmed entame son discours de lauréat du prix Nobel de la Paix par le récit – poignant – de son expérience d’opérateur radio sur le front de Badme, pendant la guerre entre l’Éthiopie et l’Érythrée, en 1998. « Il y a ceux qui n’ont jamais vu la guerre, mais qui la glorifient. Ils n’ont pas vu la peur, la fatigue et la destruction, poursuit-il devant l’auditoire. Ils n’ont pas non plus ressenti le triste vide de la guerre après le carnage".
§ Mila Crespi Gaudio
Una vertebra umana preistorica, datata 1,5 milioni di anni, è stata scoperta nel nord di Israele, nella valle del Giordano, a Ubeidiya, dagli archeologi della Università Bar-Ilan, diretti da Alon Barash, insieme al Collegio Accademico Ono, l’Università di Tulsa e l’Autorità delle Antichità di Israele. Importante scoperta, che dimostra l'esistenza di ondate migratorie diverse "out of Africa". Infatti é il secondo fossile arcaico di ominide trovato al di fuori dell’Africa; i più antichi risalgono a 1,8 milioni di anni fa e sono stati rinvenuti a Dmanisi, in Georgia.
Vertebra, Ubeidiya (Israele)- foto a) superiore b) posteriore c) inferiore d)frontale (Dr. Alon Barash, Università Bar-Ilan)
La storia di questo osso inizia nel 1959, quando un agricoltore del Kibbutz Afikim, lavorando un terreno in una zona che non era ancora riconosciuta preistorica, portò alla luce alla luce alcune ossa, inclusi un teschio e alcuni denti. Gli scavi iniziarono nel 1960, e nel 1966 l’archeologo Moshe Stekelis trovò questa vertebra, che fu messa in una scatola con la scritta "Homo?" e dimenticata. Dopo vent’anni, la paleoantropologa dell’Università di Tulsa, Miriam Belmaker, che stava lavorando sulla ricostruzione del paleoclima dell’Ubeidiya preistorica, rianalizzò tutti i fossili trovati nel sito. E, scoprendo quel pezzo di spina dorsale, capì subito che non era una scimmia: il reperto, non completamente ossificato, è molto più grande anche di quello degli erectus africani. Secondo gli scienziati, poteva trattarsi di un caso di ossificazione ritardata, e in tal caso il bambino, pur restando un soggetto molto “robusto”, avrebbe avuto un’età compresa tra 6 e 12 anni alla morte, un'altezza presunta di un metro e mezzo, e un peso di 45-60 chili!
Tuttavia, da allora iniziò un incessante studio comparativo su tonnellate di vertebre di antichi ominidi, umani moderni, iene, rinoceronti, leoni, scimmie e altri animali sospetti. In conclusione, dopo aver fatto una comparazione delle tre vertebre presacrali inferiori (negli esseri umani moderni, nei Neanderthal, negli Australopitechi, e negli scimpanzé) e dopo aver escluso che si trattasse di un animale, gli scienziati hanno stabilito la giovane età dell’ominide in base alla parziale ossificazione. Il che fa però ipotizzare una possibile statura media in età adulta intorno ai 2 metri.
E' stata studiata anche la cultura materiale dei due siti, georgiano e israeliano. Mentre a Ubeidiya i manufatti di pietra e silice, le accette di basalto, gli utensili da taglio sono associati alla cultura acheuleana avanzata (Paleolitico inferiore), gli utensili di pietra di Dmanisi appartengono alla cultura olduvaiana primitiva (Paleolitico inferiore arcaico), risalente a ondate di migrazioni di ominidi arcaici durante il Gelasiano, il periodo più antico del Pleistocene.
Quindi le due diverse industrie sono state prodotte da due diverse specie umane arcaiche. E il bambino "gigante" della Valle del Giordano e l’Homo georgicus di Dmanisi non sarebbero della stessa specie. Il che significa che gli archeologi hanno scoperto una nuova specie, un anello mancante nell'evoluzione umana, e che le migrazioni in Africa avvennero in più ondate, in un lasso di tempo che le separa tra loro dai 200.000 ai 300.000 anni.?
Per Alon Barash non c'è dubbio: "Data la differenza tra le dimensioni e la forma di questa vertebra e quelle riscontrate in Georgia riteniamo evidente e senza equivoci la presenza di due ondate migratorie distinte". Da un altro punto di vista, la paleoantropologa Miriam Belmaker (Università di Tulsa) afferma in sintesi: Una delle principali domande rispetto alla diffusione umana fuori dall’Africa sono le condizioni ecologiche. In teoria si discute se gli antichi ominidi, lasciando le foreste africane, avessero preferito un habitat di savana o di bosco umido. La scoperta di due specie diverse a Dmanisi e Ubeida, concorda con un clima diverso: più umido e compatibile con quello mediterraneo vicino al lago, e più secco e boscoso nel Caucaso. Inoltre le due specie hanno prodotto due tipi di utensili di pietra diversi.
In conclusione l’antica migrazione umana dall’Africa verso l’Eurasia, di circa 1,8 milioni di anni fa (nel Caucaso, Repubblica di Georgia), non fu un evento unico, ma è stata seguita da una seconda, di approssimativamente 1,5 milioni di anni, in Israele a sud del lago di Tiberiade, il Mar di Galilea.
Arte africana? Solo la seconda foto! che ritrae alcune (tra le migliaia) opere d'arte africane raccolte ed esposte da Adolfo Bartolomucci nella sua galleria milanese*. La prima invece è arte alpina, della Val Gardena, dove la scultura lignea fa parte della tradizione secolare, e l'artista è Adolf Vallazza, scultore di fama mondiale. Nei due casi: arte o artigianato oppure entrambi? non ha importanza, il risultato è sempre qualcosa che evoca passato e presente, stupisce, emoziona, risveglia tutti i sensi. Protagonista è sempre il legno.
(foto Lucio Rosa) (foto Mila C.G.)
L'artista africano sceglie il suo albero in funzione dell'oggetto da scolpire; così statua, maschera, feticcio, totem sarà il veicolo attraverso il quale gli spiriti, le divinità, gli antenati e le forze della natura si rendono presenti e visibili nello spazio umano. Gli oggetti di utilità quotidiana, quali spole per tessere, ciotole, sgabelli, sedie, alzatesta, strumenti per la cucina, sono fabbricati con molta cura. Per ogni settore della cultura esistono una serie di simboli e di stili specifici, compresi dalla comunità.
Anche l'artista alpino, "vive del legno, nel legno, parla con il legno...". Per questo il regista Lucio Rosa, bolzanese, gli ha dedicato il film** "Adolf Vallazza, sciamano del legno antico" presentandolo con queste parole: " Il bosco, silente e ordinato, i tronchi ravvicinati e umidi si sono affidati ad Adolf Vallazza. Un viaggio assorto e pieno di attese finisce nei linguaggi e nelle forme dell'uomo contemporaneo. L'artista non interroga la materia - che è già sua - ma il genio dei luoghi che l'ha generata. Con lui tesse il dialogo serrato che porta alle trasformazioni dei legni, programma i loro destini futuri e in loro soffia il suo spirito."
Lo sciamano viene generalmente considerato come un guaritore e un mediatore tra il mondo conosciuto della realtà ordinaria e il mondo spirituale. L'arte di Adolf Vallazza può essere antropologicamente considerata sciamanica, perchè lavora legni antichissimi, a volte secolari, recuperati nelle case contadine delle sue valli: vengono dalle pareti delle stube, hanno visto la storia, passare tante generazioni e vicende, i vivi e i morti; sono corrosi, consumati, mangiati dalle tarme, con i segni delle scarpe chiodate dei contadini, che hanno camminato su di loro per anni e anni. Anche il colore varia a seconda della loro vita. Ci sono i legni grigi, i bluastri che hanno preso la pioggia, e quelli rossi, che sono bruciati dal sole. E' come un "viaggio" nel passato e in altre tradizioni la scultura in questi legni, che hanno vissuto e trasmettono "messaggi" dai mondi spirituali invisibili alla realtà. E poi ci sono le leggende nei paesi delle montagne, le Dolomiti; "anche se astratte, le mie sculture, afferma Adolf, rispecchiano queste suggestioni. È il mio ambiente, la mia storia che mi ha dà l’ispirazione per la scultura. "
Il Maestro Adolf Vallazza nasce nel 1924 ad Ortisei. Il padre è scultore in ferro; il nonno materno, Josef Moroder Lusenberg, è un pittore. Adolf fin da piccolo ama le arti e il disegno e intaglia il legno. Negli anni quaranta e cinquanta inizia lavorare il legno dell'ulivo; per mantenere la famiglia e per passione diventa artigiano, con una ditta e sette operai. Crea statue per le Vie Crucis, crocifissi, sculture religiose della tradizione gardenese. Ma si ritaglia del tempo per studiare e fare ricerche, apre il suo studio di scultore ad Ortisei, e abbandona il legno dell'ulivo perchè lo considera di per sè già "un'opera d'arte della natura". Le prime sculture sono classiche, poi comincia a sperimentare forme stilizzate e materiali nuovi, fino alle opere che l'hanno reso famoso, i Totem e i Troni. Ha quasi quarant’anni e infine può dedicarsi solo all’arte. Passa all'astratto, ispirato da Marino Marini, Henry Moore, e soprattutto dal grande Constantin Brâncuși, maestro per la sua semplicità, la capacità di ridurre i volumi, l’iconografia delle “colonne”. Sono gli anni '60; inizia ad allestire le sue prime mostre personali in Italia e all'estero. Nel 1968 cominciano a frequentare il suo studio d'artista importanti critici milanesi, come Marussi, Budigna e Mascherpa.
(foto Lucio Rosa) (foto Mila C.G.)
Di sè racconta: "Sono un uomo che ha vissuto il scorso secolo, un novecentesco. Ho cominciato con la figurazione ... quello deve essere il punto di partenza. Non si può cominciare dall’astratto, l’astrazione si raggiunge in un secondo momento. Ancora oggi, in questi vecchi legni, faccio delle figure. Il figurativo è importante perché insegna il “mestiere”. Molti iniziano con l’astratto, e per me è impossibile, il corpo umano lo devi conoscere, devi entrare in possesso dell’anatomia, conoscere le forme… Il materiale va capito e sentito."
*African Art Gallery di Bartolomucci Adolfo - Via Caterina da Forlì, 28 - 20146 Milano Italy.
**Titolo originale: Adolf Vallazza. Sciamano del Legno Antico Regia: Lucio Rosa Anno di produzion2019 Tipologia:documentario Genere: arte/biografico Paese: Italia Produzione: Studio Film TV Formato di ripresa: Full HD 16:9Formato di proiezione: Full HD 16:9, bianco/nero Sito Web: http://www.studiofilmtv.it/film.asp?id=43&l=it Durata: 40'
(foto L.Rosa)
In Libia questo artista della luce ha "catturato architetture incredibili, soprattutto a Ghadames", dove ha girato anche un film dal titolo "Con il fango e con la luce". In Congo invece è l'elemento umano che fa da protagonista, anche perché queste foto sono un addio: "addio in un quanto, pur esistendo ancora i BaBinga, ed essere ancora "piccoletti", dice il regista, la loro cultura, le loro tradizioni, sono ormai "perdute" per sempre. I BaBinga, come anche altri Pigmei, sono usciti dalla foresta per vivere accanto e con i Bantu, in un rapporto che li vede sicuramente perdenti. Con le fotografie ho documentato le ultime testimonianze di questo fragile microcosmo, di cui ho voluto cogliere la sua anima originaria."
Nella foto in alto (gentilmente concessa dall'Autore come quella in basso), vediamo tre generazioni: il bambino, l'adolescente e l'adulto nel loro habitat tradizionale. Ma per quanto tempo? Superstiti testimoni di epoche antichissime, i pigmei Babinga continuano ad essere studiati soprattutto per definire gli elementi originari e genetici della loro civiltà, che probabilmente ha costituito il substrato africano preistorico nella vasta area del Sahara centrale, dagli altopiani orientali all'Atlantico. Furono poi respinti nelle aree forestali più impervie dall'espansione del gruppo negroide, parzialmente fondendosi con questo nelle aree marginali.
Questi piccoli uomini sono dunque la testimonianza di quella che fu probabilmente la vita dei cacciatori-raccoglitori della preistoria. La buia e impraticabile foresta equatoriale ha contribuito a proteggere le loro caratteristiche. Oltre ai TYwa e Tswa, sostanzialmente pigmoidi anche se meticciati con elementi negroidi, si distinguono due raggruppamenti, considerati i più "puri": i Mbuti o Bambuti, suddivisi in alcune famiglie che nomadizzano nel bacino dell'Ituri, e i BaBinga o Binga, con numerose tribù, praticamente sedentari nel bacino del basso Oubangui fino alla sua confluenza con il Congo.
I Pigmei non vanno considerati semplicemente dei Neri in miniatura. Le loro caratteristiche somatiche e genetiche li collocano in un gruppo peculiare, con una propria differenziazione e una conformazione che per le proporzioni ricorda abbastanza da vicino quella di un bambino nella prima infanzia (fenomeno di isolamento o neotenia?): statura molto piccola (media oscillante da 1,37 m a 1,45 m); cranio tendenzialmente brachimorfo; pelle di colore giallo-rossiccio più o meno scuro, ma non nero; occhi castani; capelli corti e crespi; barba ben sviluppata; labbra pronunciate; naso decisamente platirrino; tronco relativamente lungo rispetto agli arti inferiori che appaiono brevi; arti superiori piuttosto lunghi, frequenza di un fattore glubulinico specifico e di gruppi sanguigni A e B più alta rispetto a quella del gruppo negroide, minore pelosità, presenza di un fattore glubulinico specifico, infine bassa incidenza di anemia falciforme.
(foto Lucio Rosa)
Ma le cose stanno cambiando repentinamente: l'impatto con altre civiltà sta fatalmente inquinando, come in altre parti del mondo, cultura e tradizioni. Eppure il cuore di Lucio Rosa è sempre là: "Io l’Africa la conosco dal di dentro, nel male e nel bene.** Ho evitato le bombe, sono stato boicottato, tanti miei progetti sono svaniti nel nulla... La prima volta che sono andato in Africa mi ha lasciato stordito. Amo i profumi, i colori, la gente dell’Africa. Erano sempre disposti ad aiutarci quando dovevamo girare. A cominciare dai Pigmei. Ma sta tutto cambiando purtroppo. Nella prima scena di un mio film, che mi ha chiesto Piero Angela, c’è un Pigmeo con l’arco e le frecce, nell’ultima c’è un Pigmeo con un fucile. Ho detto tutto".
*Babinga, piccoli uomini della foresta - Italia - Regia: Lucio Rosa - Durata: 27’
Anno di produzione: 1987 - Produzione: Studio Film Tv
Consulenza scientifica: Lucio Rosa
**Altri lavori di Lucio Rosa, gentilmente concessi per la mostra di Attilio Gaudio, sulle biblioteche del deserto, a Milano, nel 2008: Scrivere sulla sabbia
Il Segno sulla Pietra (58') (2006) - Bilâd Chinqît - Il Paese di Chinguetti (59') (2004)
A due mesi dal sequestro di padre Maccalli non c'è nessuna notizia certa su dove si trova, se è vivo e sui passi intrapresi per liberarlo. Un altro appello è stato lanciato dalla SMA (Società delle Missioni Africane, Genova, www.missioniafricane.it) a tutti coloro che hanno a cuore l'opera dei missionari>:
"Un nostro missionario, padre Pier Luigi Maccalli, (originario della diocesi di Crema, già missionario in Costa d'Avorio) da più di un mese è nelle mani di ignoti rapitori, i quali non si sono fatti ancora vivi. Il rapimento è avvenuto nella sua missione di Bomoanga, nel sud-ovest del Niger, a pochi chilometri dalla frontiera con il Burkina Faso. Padre Gigi, come qui tutti lo chiamano affettuosamente, in undici anni ha fatto molto per la popolazione: scavo di pozzi, costruzione di scuole e ambulatori medici, formazione per i giovani contadini, istruzione degli adulti" mettendo insieme, come riferisce l'Agenzia Fides, "evangelizzazione e promozione umana; attento all'inculturazione, ha organizzato momenti di iniziazione in relazione con la circoncisione e l'escissione femminile. Può essere uno dei moventi per il rapimento, giunto una settimana dopo il suo rientro da un tempo di riposo in Italia». Infatti, attento alle problematiche legate alle culture locali, aveva organizzato incontri per affrontare temi sociali e contrastare pratiche legate alle tradizioni, come le mutilazioni genitali.
La Missione cattolica dei Padri SMA si trova in zona Gourmancé (Sud-Ovest) alla frontiera con il Burkina Faso, nella prefettura di Makalondi, e a circa 125 chilometri dalla capitale Niamey. La Missione è presente dagli anni '90, e i villaggi visitati dai missionari sono più di venti, di cui dodici con piccole comunità cristiane, distanti dalla missione anche oltre 60 chilometri. "Da qualche mese la zona si trova in stato di urgenza - spiega padre Mauro Armanino, missionario SMA a Niamey - a causa della presenza di terroristi provenienti da Mali e Burkina Faso». Testimoni riferiscono che uomini armati in moto hanno fatto irruzione nella missione, "lo hanno preso e portato via; il confratello indiano che vive con lui è riuscito a mettersi in salvo". E' plausibile che presunti jihadisti siano attivi nella zona, dove la povertà è strutturale, i problemi di salute e igiene enormi, l’analfabetismo diffuso e la carenza di acqua e di strutture scolastiche ingenti. La mancanza di strade e di altre vie di comunicazione, anche telefoniche, rendono la zona isolata e dimenticata.
Dopo il rapimento – riferiscono dalla Curia della SMA – padre Maccalli è stato probabilmente portato al di là della frontiera. Nella confinante regione del Burkina Faso c’è, infatti, una vasta foresta in cui hanno le proprie basi i miliziani jihadisti. Attualmente la diocesi di Niamey ha inviato un gruppo di sacerdoti nel villaggio di padre Maccalli per verificare i fatti e per prendere contatti con la comunità locale. Un altro religioso italiano di una parrocchia vicina è stato fatto allontanare e ora è al sicuro a Niamey”.
Poema per p. Gigi,
di p. Paco Bautista, missionario SMA spagnolo
Algún día, en alguna parte,
todo será de otra manera.
Mientras tanto
bregamos con nuestras heridas,
convivimos los miedos,
los fracasos,
gestionamos nuestros fantasmas
en estos tiempos de crisis…
Pero también
sacamos lo mejor de nosotros
porque creemos,
contra toda evidencia,
en la bondad innata
de lo más sagrado
que cada uno lleva dentro.
Y apostamos por un mundo
sin fronteras ni exclusiones,
donde la verdad
es el punto de salida
para hacer nuevas todas las cosas.
Porque algún día,
en alguna parte,
todo será de otra manera.
Fraterno siempre
Browning et al./Cell - Il grafico mostra le migrazioni dei Denisoviani in Asia e Oceania, e ipotizza genomi misti con Neandertaliani e sapiens moderno.
Infatti, da quando è stato analizzato nel 2010 il genoma dell'Homo di Denisova (a partire da pochi fossili: una falange e due molari), sappiamo che alcune popolazioni dell'Oceania (Papua, Nuova Guinea, isole Cercanas) contengono nel loro DNA il 5% di quello di Denisova. Anche le popolazioni dell'est e del sud dell'Asia contengono lo 0,2% del DNA denisoviano, ma sembra che questo sia dovuto a migrazioni (e quindi incroci) delle popolazioni oceaniche verso il continente.
Uno studio, pubblicato dalla rivista Cell, ha effettuato le sue ricerche in merito grazie ad un nuovo metodo di analisi, basato sui dati dei progetti "UK10K, 1000 Genomi e Differenze dal Genoma Simons" (specie di catalogo di genomi di 300 individui appartenenti a 142 diverse popolazioni). Quindi gli umani moderni (Homo sapiens sapiens, Neandertal e Denisova) sono esistiti nelle stesse epoche, incrociandosi e scambiandosi porzioni di DNA. Ma erano umani geneticamente diversi, pur avendo un antenato comune (che si pensa sia esistito per un milione di anni, e sia originario del continente africano).
Quanto a Spagnoli e Italiani, abitanti nell'estremità meridionale dell'Europa, si può affermare che nel loro DNA non esistono geni denisoviani, e che la percentuale di geni Neandertaliani è molto bassa (in base ai 5.639 individui esaminati).
Settembre 2015 - La scienza non è dogmatica, ogni ipotesi deve essere considerata “vera” fino a quando non si dimostra il contrario. Così, mentre ci si interroga ancora sul colore della pelle dei Faraoni e dei loro sudditi (erano neri?), una nuova specie del genere Homo, con caratteristiche primitive e moderne insieme, è stata scoperta in Sudafrica. Un ritrovamento che potrebbe far riscrivere la storia dell'evoluzione della nostra specie?
E' il titolo del nuovo film di Lucio Rosa (Studio Film TV, Bolzano)*, ovvero Libia, antiche architetture berbere, che il regista definisce "fatto con la testa e con il cuore e presenta con queste parole: "Le antiche oasi che gli Imazighen "uomini liberi", i Berberi di Libia, "vestirono" di una splendida architettura, oggi sono quasi tutte abbandonate e cadute nel degrado. È un mondo che sta scomparendo, non essendoci più grande interesse per il recupero e la conservazione della memoria e della storia. Inoltriamoci in questi luoghi, percorriamo queste strade, visitiamo quanto di prezioso rimane di un tempo antico: le architetture sublimi di antiche sontuose dimore, le elaborate architetture con cui si innalzavano magazzini fortificati, i villaggi che accoglievano i mercanti che, con le loro carovane, portavano i prodotti dell'Africa Nera verso i porti del Mediterraneo."
Questo film ci offre una visita speciale, accompagnati da un fotografo speciale,, con una serie di scatti che, meglio che in un film, fluiscono, a volte con progressivi ingrandimenti, consentendo di osservare i dettagli, accompagnati da preziose informazioni e una musica discreta e solenne. E' quasi un pellegrinaggio, in una regione speciale dal clima estremo in estate e in inverno: l'estremo nord-ovest della Libia, dove il Jebel Nafusha, alto 968 metri, (o Djebel Nefoussa - in arabo : ,الجبل نفوسة o al-Jabal Nefusa, in berbero nafusi: Adrar n Infusen) separa la pianura della Tripolitania dall'ardente Sahara. Qui abitano i Berberi Imdyazen, musulmani ibaditi generalmente considerati gli ultimi discendenti della terza branca dell'Islam, il Khârijismo.
«Durante le varie missioni svolte in Libia - spiega Lucio Rosa - per realizzare film e ricerche varie (e purtroppo solo fino al 2014 perché poi la Libia è diventata impraticabile) mi sono interessato all’ architettura berbera di diverse oasi, abitate e vissute dai berberi Imazighen fino ai primi anni ’80. Poi Gheddafi, volendo che la sua gente vivesse con i confort occidentali, ha costruito le nuove città in prossimità dei vecchi villaggi, e le vecchie oasi sono state quasi tutte abbandonate e sono cadute nel degrado. È un mondo che sta lentamente scomparendo non essendoci più grande interesse per il recupero e per la conservazione della memoria e della storia»
Ma chi è Il ragazzo con la Nikon?
Il regista stesso, che ha scattato migliaia di fotografie, appunto con la Nikon, nel corso degli anni, fino all' “Ultima, nell’aprile 2013… poi il buio per questo splendido Paese”, ricorda con amarezza. Il 23 aprile 2013 il regista era appunto a Tripoli al ministero del Turismo e Cultura per firmare il contratto di un film su Ghadames, la grande oasi ai margini occidentali del Sahara libico nel punto d'incontro di Libia, Algeria e Tunisia. “Ma un attentato all’ambasciata francese ha bloccato Tripoli… fuggi fuggi… imbarco sul primo aereo per riornare in Patria, e il film, con la sceneggiatura e storyboard approvati, è finito nel cassetto. In attesa… Ad oggi è ancora lì, ricoperto dalla polvere del tempo… ma ancora vivo nelle mie intenzioni e speranza… ma verrà il giorno…”
*Regia, fotografia, montaggio, testi: Lucio e Anna Rosa- Durata: 30' - Formato: Full HD 16:9
© Studio Film Tv
Scrive Padre Galli: VISITE DALL'ITALIA
Ancora una volta il Centro Sanitario di Kolowaré ha ospitato un gruppo di medici e dentisti dell’AVIAT (Associazione Volontari Italiani Amici Togo). Questo organismo aveva già provveduto, qualche anno fa, ad allestire un gabinetto dentistico nel Centro, ed ora è perfettamente funzionante. Questo ambulatorio continua la sua attività con un tecnico dentista formato dai dentisti italiani. Questa volta il gruppo era numeroso: presente il responsabile, dottor Gianfranco Mirri, due dentisti, Alessandro e Denis, quattro dottoresse e una infermiera. Con loro erano presenti alcuni oculisti locali che hanno operato un centinaio di pazienti di cataratta. Tutte le spese, intervento, medicine, vitto e trasporto per medici e ammalati, sono stati presi in carico dall’AVIAT.
Operati in attesa di controllo - Pazienti in attesa
Il gruppo si è installato al Centro Sanitario, guidato dalla nuova responsabile suor Claire. Il primo giorno hanno lavorato solo la mattinata. Nel pomeriggio siamo andati tutti in un villaggio della parrocchia di Affem Kabyè, ad una cinquantina di km da Kolowaré, per vedere i lavori di scavo per un pozzo, offerto da due dottoresse. Le macchine trivelle erano già sul posto e al lavoro dal mattino. Ad una settantina di metri hanno trovato una roccia, perforata, e da sotto è zampillata una polla d’acqua talmente importante, limpida e pulita, che tutti si sono messi ad applaudire.
Ad Affem per il rinfresco- E l'acqua esce in abbondanza
Padre Roberto, il parroco, ci ha poi condotto ad Affem dove, in un parco allestito nel terreno della parrocchia, ha offerto a tutti un rinfresco con pollo arrosto e frittelle di ignami. Affascinati dal posto e dall’ambiente i dottori hanno deciso di venire, il giorno dopo, a curare gli ammalati del luogo. Siamo poi ritornati sul luogo del nuovo pozzo e l’acqua fluiva abbondante. E così martedì 9 novembre tutti i medici, meno i dentisti, sono tornati ad Affem per offrire cure e medicine gratis a tutti.
Con Gamal accanto al nuovo pozzo - Bambino appena operato
La voce della loro presenza si era diffusa. Il villaggio di Atchibodow è venuto a chiedere di fare una trasferta anche da loro. Giovedì 11, accompagnati da Jean, l’infermiere del Centro, si sono recati al villaggio. Fine mattinata passo a trovarli. I pazienti gremivano la piazza della Chiesetta. Era certamente molto laborioso avere un’attenzione particolare per ogni paziente.
Dentisti al lavoro
Valle dell’Omo N°1
Giovane dell’etnia Karo davanti a un'ansa del fiume Omo; circa un migliaio di Karo vivono sulla sua sponda orientale (foto Lucio Rosa)
Nell’estremo sud-ovest dell’Etiopia, tra i grandi laghi dell’enorme spaccatura geologica della Rift Valley sopravvive forse ancora per poco l’ultima regione “autentica” del continente: una vasta area di monti, aride savane e affluenti del fiume Omo. Nel 1980 questa valle è stata inserita nell’elenco dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco per la sua straordinaria importanza geologica e archeologica. Qui sono stati trovati numerosi fossili di ominidi, soprattutto resti appartenenti al genere Australopithecus e Homo, insieme ad utensili di quarzite risalenti a circa 2,4 milioni di anni fa. Un’area che si pensa abbia rappresentato una culla per il processo di ominazione negli ultimi milioni di anni. Qui abitano almeno una trentina di etnie di grande importanza antropologica ed etnografica, la preistoria ai giorni nostri. Qui opera la cooperazione italiana e lavora la società Salini-Impregilo.
Eppure: accesso negato ai giornalisti di Nigrizia (numero di febbraio 2016). Luca Manes e Giulia Franchi erano in Etiopia ”per scrivere un reportage sul ruolo della cooperazione italiana nel secondo paese più popoloso d’Africa, con tassi di crescita fra i più alti al mondo, combinati con questioni interne che chiamare problemi è un eufemismo: fame, violenza, povertà ancora diffusa e un sistema politico basato su un monopartitismo di fatto”. Raccontano: “Avevamo scelto di visitare alcuni progetti per la riduzione del rischio nel settore acqua, localizzati nel sud, bassa valle dell’Omo. (…) Solo che nell’Omo i giornalisti non ci possono andare”. In realtà, ad Addis Abeba c’era il visto sul passaporto, l’accordo del governo federale, gli sforzi dell’ambasciata e della cooperazione italiana, anche l’intervento di un ministro. Poi è arrivato il via libera fino ad Arba Minch (nella Regione delle nazioni, nazionalità e popoli del sud – SNNPR) dove si trova il progetto Warka Water della cooperazione italiana; quindi il permesso di continuare il viaggio fino a Konso (sul fiume Sagan). Infine: impossibile proseguire per Omorate, all’ingresso della valle dell’Omo.
Stop non solo per i giornalisti, ma anche per i cineasti. Così è stato annullato il progetto di Lucio Rosa (Studio Film TV), regista impegnato da oltre quarantacinque anni nella realizzazione di reportages, programmi televisivi e documentari. Questo “regista veneziano, bolzanino d’adozione, (scrive Graziano Tavan, giornalista de "Il Gazzettino di Venezia") aveva deciso di lasciare per un momento le “pietre” e i successi ottenuti con i suoi film di carattere archeologico e di tornare a raccontare l’Uomo, o meglio la cultura originaria di alcuni gruppi tribali in Africa, non ancora contaminati completamente dagli uomini occidentali. Il nuovo progetto prevedeva la realizzazione di cinque film in Africa, ma l’avvio non è stato bene augurante: il primo, infatti, è stato annullato. Lontano, lungo il fiume – l’anima originaria delle tribù dell’Omo, già sceneggiato e per il quale le riprese dovevano essere realizzate in Etiopia tra agosto e settembre 2015, è rimasto lettera morta”.
Lucio Rosa in Etiopia durante la preparazione del film sulle tribù dell’Omo
Il motivo? ” Purtroppo ho dovuto rinunciare, ha dichiarato amareggiato il regista, per i folli prezzi che le autorità chiedono per rilasciare i permessi per le riprese dei gruppi tribali, trentamila dollari. Una follia per un film maker indipendente quale io sono (…) Questo film poteva rappresentare un’ultima testimonianza della cultura originaria di questi gruppi tribali come i Karo, Mursi, Hamer, Dassenach”, e continuare il lavoro etnografico di Lucio Rosa iniziato trent’anni fa, insieme alla moglie Anna, con documentari come Babinga, piccoli uomini della foresta (pigmei del nord della Repubblica Popolare del Congo), e Pokot, un popolo della savana in Kenia.
“In realtà, scrive Tavan, un modo come un altro per tenere occhi indiscreti lontano dai progetti perseguiti nell’area che evidentemente non hanno come obiettivo la conservazione di una delle culle dell’umanità, e il prosieguo delle ricerche antropologiche e paleontologiche nella valle dell’Omo”.
Il fiume Omo Bottego (dal nome dell’esploratore Vittorio che lo scoprì nel 1896, e vi lasciò la vita), nasce nell'altopiano etiopico e, passando, dai circa 2500 metri di altezza delle sorgenti ai 500 metri di altezza del lago, dopo 760 km di corsa impetuosa e poi di placidi meandri, sfocia con un delta nel lago Turkana (ex Rodolfo). L'Omo, serpeggiando nei vasti territori pianeggianti dell’Etiopia sud-occidentale, riceve numerosi affluenti (Gogeb, Wabi, Mago, Neri) ed attraversa i parchi nazionali di Mago e Omo, ricchi di fauna. Il territorio fa parte del Grande Rift dell’Africa orientale, un sistema di fosse tettoniche legate all’allontanamento di placche litosferiche. Un movimento divergente che, accompagnato da diffusi fenomeni vulcanici e sismici, provoca da oltre venti milioni di anni lo sprofondamento della crosta terrestre rispetto ai circostanti altipiani, e l’innalzamento delle montagne più alte dell’Africa, inclusi i monti Virunga, Mituba e Ruwenzori.
La Rift Valley africana ripresa dallo spazio. In tempi geologici sarà il fondo di un mare (http://www.vialattea.net)
Questo fondovalle, largo tra 30 e 100 metri, anticipa la formazione di un bacino oceanico africano, allontanando in futuro il Corno d’Africa dal grande continente. La Rift Valley, lunga almeno seimila chilometri, inizia nel nord della Siria, ospita il lago di Tiberiade, la valle del Giordano, la conca del Mar Morto, il golfo di Aqaba, poi prosegue con il Mar Rosso, la depressione di Afar (la Dancalia) e attraversa l'Africa orientale fino al lago Niassa (o Malawi) e al Mozambico, nella regione dei grandi laghi africani, che includono tra i più profondi laghi del mondo come il Tanganica, profondo fino a 1.470 metri. I ritrovamenti paleo-antropologici sono appunto legati all’attività vulcanica e tettonica responsabile della formazione di queste profonde depressioni e alla contemporanea sedimentazione legata all’intensa erosione dei rilievi, ma anche ai clasti e alle ceneri vulcaniche che hanno coperto rapidamente i resti animali e vegetali, permettendo così la fossilizzazione.
“La realtà nella bassa valle dell’Omo sta cambiando velocemente a scapito dei deboli della Terra, come sono i popoli che qui vivono, scrive Lucio Rosa su Archeologia viva. Un villaggio dei Karo che ho visitato recentemente, e che otto mesi prima era un villaggio vivo, posto al di sopra di un’ansa dell’Omo, praticamente non esiste quasi più, a parte qualche persona che si “imbelletta il volto” per accontentare qualche turista. È dal 2011 che il governo etiope dà in concessione a imprenditori stranieri enormi appezzamenti di terra fertile sottraendoli ai gruppi tribali e distruggendo i loro pascoli. Chi si oppone e fa resistenza subisce pestaggi e anche il carcere. Per l’Africa è una storia vecchia che si ripete. Sono aziende turche, malesi, finlandesi, olandesi, italiane, coreane, di mezzo mondo, specializzate nella coltivazione della canna da zucchero, cotone, palma da olio, mais per biocarburanti, che si sono accaparrate questi vasti territori. Si deforesta per fare spazio al grande progetto statale “Kuraz Sugar Project”, che sottrarrà un’area di 245.000 ettari ai territori dove vivono i gruppi tribali. Lungo le sponde del mitico Omo i bulldozer continuano a spianare terreni sterminati per le piantagioni che saranno irrigate con l’acqua del fiume. E conclude: E con l’estinzione dei gruppi tribali finirà anche il turismo culturale. Sono circa duecentomila gli indigeni che vivono qui. La loro esistenza è gravemente minacciata. La loro fine sarà un po’ anche la nostra”.
Foto Lucio Rosa
Mila C.G. (le foto di Lucio Rosa sono state gentilmente concesse dall’Autore)
Area del fiume Omo con evidenziate le tre dighe Gilgel I, II, III e la IV in programma. In piccolo, l’intera area dall’Eritrea al Kenya (rappresentazione non in scala) voices.nationalgeographic.com
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Faccio seguito alla notizia pubblicata in Eventi il 14 maggio 2021 (Arti talismaniche ... dal nord della Nigeria) a cura di Andrea Brigaglia* e Gigi Pezzoli*). Questa interessante mostra è ora allestita a Milano e resterà aperta fino al 22 gennaio 2022 (corso Buenos Aires 2, domenica e lunedì chiuso, altri giorni ore 10-12 e 15-17 - verificare orari apertura).
Infatti così scrive Gigi Pezzoli: Cari Amici, diversi di voi ci hanno chiesto di poter vedere a Milano la mostra sulle arti talismaniche del Nord della Nigeria già presentata a Napoli nella scorsa primavera. Ci siamo riusciti. La mostra sarà inaugurata il 27 ottobre 2021, alle ore 18:00, presso la Galleria Lorenzelli Arte di Corso Buenos Aires 2, a Milano. Il titolo é invariato: Nel Nome di Dio Omnipotente - Arti talismaniche, pratiche di scrittura sacra e protettiva dal nord della Nigeria
Così Lorenzelli Arte continua la sua periodica programmazione di iniziative collaterali allo scopo di approfondire tematiche e ricerche sull’arte contemporanea, nella diffusione e confronto tra culture. Le sale espositive ospitano nel cuore di Milano una ricca serie di 80 opere inedite, appartenenti agli Hausa, un gruppo etnico di oltre 70 milioni di individui, stanziato tra il nord della Nigeria e il sud del Niger.
Ci si immerge in un mondo di prevalente tradizione sufi, apparentemente lontano, ma che rimanda ad antiche pratiche protettive, divinatorie e taumaturgiche del Medio Oriente, del mondo greco-romano, della Cabala ebraica, fno all’alchimia occidentale medievale.
La collezione si compone di autentici manoscritti religiosi e poetici, tavole utilizzate per lo studio e la memorizzazione del Corano, diplomi di completamento degli studi religiosi, tavole in legno e metallo per la protezione delle case e delle persone, oggetti simbolici come pelli e formule apotropaiche, esemplari di ricettari popolari sulle scienze esoteriche, talismani e oggetti per la divinazione.
La ricerca ridimensiona una presunta magia soprannaturale africana, talvolta interpretata in accezione negativa dalla cultura occidentale. Interessante la creazione di un ponte tra magia e religione, intese come pratiche culturali di popoli solo apparentemente distanti, grazie anche al prezioso contributo di molti studiosi internazionali (Anastasia Grib, Constant Hamès, Aliyu Muhammadu Bunza, Elio Revera, Karimu Adejare Amao e Ismaila Abefe Bakare).
*Andrea Brigaglia: ricercatore a tempo determinato (RTDB) presso il Dipartmento Asia, Africa e Mediterraneo dell’ Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Precedentemente, Senior Lecturer presso il Department of Religious Studies, University of Cape Town (Rep. Sudafricana). Nelle sue ricerche antropologiche, pubblicate in numerose riviste internazionali, si è occupato di aspetti storici, politici, letterari ed estetici dell’Islam contemporaneo in Nigeria. Ha curato insieme a Mauro Nobili, il volume TheArts and Crafs and Literacy: Islamic Manuscript Cultures in sub-Saharan Africa (De Gruyter, Berlin 2017).
*Gigi Pezzoli: Presidente del Centro Studi Archeologia Africana presso il Museo di Storia Naturale di Milano. Membro del Comitato ordinatore del Museo degli Sguardi - Raccolte etnografche di Rimini. Responsabile della missione di ricerca in Togo del Centro Studi Archeologia Africana/Museo di Storia Naturale di Milano e del Ministère de la Culture du Togo/Université de Lomé. Membro del Comitato direttivo del Centro Studi di Storia delle Arti Africane - Università Internazionale dell’Arte di Firenze. Organizzatore di conferenze internazionali sulle culture dell’Africa. Curatore di diverse mostre e autore di pubblicazioni sull’antropologia e sull’arte tradizionale africana, tra cui la prima sulle tavole talismaniche Hausa, Alluna. Mondo e spiritualità Hausa (Centro Studi Archeologia Africana, Milano 2013).
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I risultati dei lavori di un'équipe britannica (pubblicati sul quotidiano online The Independent) sembrano aggiungere nuove ipotesi alle teorie sull'evoluzione umana.
Nel sito archeologico di Attirampakkam, nel sud-est dell'India (60 km da Chennai, Tamil Nadu) sono stati scoperti strumenti antichi di almeno 385.000 anni, epoca che coincide con il periodo in cui questa tecnologia sarebbe stata utilizzata per la prima volta dall'uomo moderno in Africa. Finora si pensava invece che L'India avesse conosciuto questa tecnica tra 140.000 e 46.000 anni anni fa, con la migrazione dall'Africa dell'uomo moderno. Questa scoperta anticiperebbe questa migrazione dall'Africa verso l'Asia ad almeno 400.000 anni fa; sarebbe quindi più antica di quanto si pensava? Oppure gli ominidi indiani di quell'epoca hanno sviluppato una propria cultura del Paleolitico Medio? E ancora: si tratta di uomini moderni o di Neandertaliani o di altre specie arcaiche?
Rimangono quindi molti interrogativi, soprattutto per la mancanza di resti umani associati alle scoperte. Anche perché in passato si era parlato di utensili di un milione e mezzo di anni!
L’archeologa Mercedes Versaci (Gruppo PAID HUM-812 del dipartimento di Preistoria dell’ Università di Cadice) ha scoperto – in una grotta della Sierra della Plata, punta meridionale della penisola iberica vicino a Gibilterra - una pittura rupestre che funge da indicatore solare. Una scoperta finora unica in Spagna. Stava preparando una tesi (dal titolo “El sol, símbolo de continuidad y permanencia: un estudio multidiscilpinar sobre la figura soliforme en el arte esquemático de la provincia de Cádiz”) nella zona intorno alla laguna de La Janda, (oggi a secco) nel comune di Tarifa, dove sono stati registrati circa trecento rifugi preistorici con pitture rupestri. In ventidue di essi appare una figura a forma di sole.
Ma nella Cueva del Sol (una piccolissima grotta di difficile accesso ma molto visibile) la studiosa ha scoperto un disco di 24 centimetri, geometricamente perfetto, con dodici raggi orientati verso il calar del sole. E l’unico raggio dipinto coincide con l’ultimo filo di luce del crepuscolo del solstizio d’ inverno. Quindi una specie di calendario agricolo per sapere quando le giornate avrebbero iniziato ad allungarsi e seminare, quando le piante sarebbero cresciute insieme al sorgere del sole più presto ogni giorno, quando ci sarebbe stato il raccolto, quando la terra avrebbe avuto un periodo di riposo. E questo ciclo si sarebbe compiuto al successivo solstizio d’inverno per ricominciare. Quindi una concezione del tempo circolare e una pittura rupestre risalente molto probabilmente alla preistoria recente, quando l’uomo già praticava l’agricoltura. Infatti le piante sono rappresentate in altre grotte con figure ramiformi e associate a idoli per rituali magici.
Fonte: europasur.es | 22.01.2017 - Red Española de Historia y Arqueologia
Un'équipe di archeologi ha scoperto nella regione di Isfahan, lungo il percorso di antiche vie di comunicazione commerciali, economiche e culturali, antiche rocce incise con vari segni e simboli, risalenti al terzo millennio a.C. (età del Bronzo) fino al periodo preislamico.
incisioni a Meymeh
Lo ha annunciato il capo della Isfahan's Cultural Heritage Organisation, Fereydoun Alahyari, sottilineando che si tratta delle prime manifestazioni, nella regione, di una forma di comunicazione non verbale e intuitiva tra popolazioni vicine preistoriche.
E' durante le ricerche nelle città di Shahin Shahr e Meymeh, poi estese a Kashan, Ghamsar, e Golpayegan verso nordest, che sono state fatte varie scoperte: un'antica collina del periodo sasanide (224-651 d.C., secondo impero persiano), una zona mineraria del periodo samanide (819-1005 d.C.), varie tombe anch'esse preislamiche.
Così, cinquemila anni fa, antiche strade collegavano -grazie alle indicazioni di queste pietre, conosciute come Negarkand- le economie e le civiltà degli abitanti dell'altipiano iraniano, ben prima dell'arrivo di altre popolazioni scese da nord.
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